SCOPRIRE LA PROPRIA BASE SICURA INTERIORE SIGNIFICA IMPARARE A ESSERE QUELLA PRESENZA CHE NON ABBANDONA, NEMMENO QUANDO TUTTO TACE
Imparare a costruire la propria base sicura interiore: la voce che ci accompagna anche quando tutto tace.
Ci sono parole che cambiano la direzione di una giornata. E a volte, l’unica cosa di cui abbiamo davvero bisogno è una persona. Una persona che ci dica: “Stai tranquillo, tu ce la farai, io credo in te, vai avanti, non mollare.”
E a volte, quella persona dobbiamo essere noi stessi.
Ci sono momenti in cui il mondo sembra distante, e le parole che vorremmo sentire non arrivano da nessuno. È allora che possiamo imparare a pronunciarle dentro di noi, a diventare quella voce che sostiene, che crede, che accoglie. Essere quella presenza che non abbandona, nemmeno quando tutto tace.
Quando impariamo a costruire la nostra base sicura interiore
Nel percorso psicologico impariamo a costruire una base sicura interiore, una voce capace di accompagnarci anche nei momenti di solitudine. Non è isolamento, ma maturità emotiva: la capacità di restare accanto a sé stessi senza fuggire, di contenere le proprie emozioni, di accogliere la vulnerabilità come parte della vita.
Secondo John Bowlby, la “base sicura” è la radice di ogni legame sano: è ciò che ci permette di esplorare il mondo sapendo di poter tornare in un luogo sicuro. Nella terapia, questo luogo comincia a esistere dentro di noi.
Nel percorso terapeutico: costruire una base sicura interiore
Nel lavoro clinico, mi accorgo che la svolta arriva proprio qui: quando una persona sente che può contare su sé stessa, che può parlarsi con gentilezza invece che con giudizio, che può scegliere di restare, invece di scappare.
Diventare la propria base sicura interiore significa imparare a riconoscere i propri bisogni senza colpa e a reggere le emozioni senza negarle. È un atto di resilienza psicologica e di autocompassione profonda.
La terapia offre lo spazio dove questa voce può nascere e consolidarsi: un’esperienza di accoglienza che, con il tempo, diventa parte del proprio modo di vivere, amare e pensarsi.
Essere la voce che avremmo voluto accanto
Diventare la propria base sicura interiore non significa non aver bisogno degli altri, ma scegliere relazioni più libere e reciproche. Significa smettere di aspettare salvezze esterne e cominciare a costruire fiducia, presenza e ascolto.
È la capacità di diventare quella voce che avremmo voluto accanto: calda, ferma, paziente. Una voce che ci dice — anche quando tutto tace — che possiamo farcela.
Conclusione: il valore di una base sicura interiore
La base sicura interiore non è un traguardo, ma un processo. Ogni volta che impariamo a sostenerci, stiamo costruendo dentro di noi una nuova possibilità di fiducia e consapevolezza.
Se vuoi approfondire come si sviluppa questa voce interiore attraverso la psicoterapia, leggi anche Imparare a lasciare andare: un passo ulteriore nel percorso verso una presenza più stabile e compassionevole.
La scuola non dovrebbe solo insegnare, ma accogliere
“Ci sono cose che a scuola non si imparano dai libri, ma dagli sguardi, dai silenzi, da un adulto che sceglie di esserci davvero.” La scuola dovrebbe essere molto più di un luogo di voti e interrogazioni. Dovrebbe essere uno spazio dove gli studenti imparano a scoprire chi sono, a esplorare le proprie passioni, e a commettere errori senza paura, perché è proprio attraverso l’errore che si cresce. Eppure, spesso l’attenzione è focalizzata solo sul rendimento, senza considerare che dietro ogni ragazzo c’è una storia, un mondo interiore complesso.
Quando un insegnante sceglie di ascoltare, non di giudicare
Mi ricordo che quando ero in terza o quarta superiore attraversavo un periodo difficile. Come tanti ragazzi della mia età, mi sentivo perso tra le trasformazioni familiari, fisiche ed emotive. Non andavo bene in molte materie, facevo numerose assenze e ogni giorno mi sembrava più complicato del precedente. Un giorno, una professoressa mi chiamò alla cattedra per interrogarmi. Ero convinto che sarebbe stata l’ennesima esperienza negativa, l’ennesimo voto che avrebbe pesato sul registro. Avevo già la testa bassa, convinto di non sapere abbastanza, di non essere all’altezza. Ma appena mi fu vicino, abbassò la voce e mi disse che non era sua intenzione interrogarmi davvero. In quel momento, capii che voleva solo parlarmi, sapere come stavo, capire cosa stessi attraversando.
Un gesto semplice può cambiare tutto
Quello che mi colpì di più fu il modo in cui lo fece. Non mi mise in difficoltà davanti alla classe, non attirò l’attenzione su di me. Parlava a voce bassa, assegnava compiti agli altri studenti, simulava un’interrogazione vera e propria. Nessuno si accorse di nulla, e io mi sentii protetto, ascoltato, riconosciuto. Mi guardò e mi chiese semplicemente come stavo. Mi diede quel tempo per parlare di me, per raccontarle cosa stavo provando. Fu un gesto semplice, ma potentissimo. Quella donna, quell’insegnante, in quel momento non era solo una professoressa. Era un’adulta che si prendeva cura di un ragazzo. Mi insegnò che a volte basta poco per fare la differenza nella vita di qualcuno: uno sguardo, una parola, un gesto discreto. In quel gesto c’era ciò che ogni adulto può rappresentare per un giovane in difficoltà: una presenza che ascolta, accoglie e guida. Per molti genitori questo interrogativo è vivo ogni giorno: Come posso essere d’aiuto a mio figlio? Ne parlo anche qui: Cosa posso fare con mio figlio?
L’errore come strada per conoscersi
Forse la cosa più bella della psicologia analitica di Jung è il concetto di individuazione, che può essere riassunto nella frase emblematica di Nietzsche: “Diventa ciò che sei”. I bambini crescono osservando, imitando, ma poi arriva un momento in cui devono staccarsi da quell’imitazione e trovare la propria strada.
“Diventa ciò che sei”: l’individuazione tra sbagli e consapevolezza
L’oracolo di Delfi diceva “gnōthi sautón”, conosci te stesso, e la prima condizione per diventare se stessi è proprio questa: conoscersi, scoprire le proprie potenzialità, accettare le proprie vulnerabilità. Ma come si fa a conoscersi davvero, se non si ha lo spazio per sbagliare? Jung diceva che per individuarsi bisogna uscire dai comportamenti collettivi, non adattarsi ciecamente, ma trovare il proprio modo di essere nel mondo. E per farlo, è necessario attraversare tentativi ed errori, cadute e risalite. È necessario sbagliare.
Il valore dell’errore nella scuola e nella vita
Per questo, la scuola dovrebbe essere un luogo dove l’errore non è una condanna, ma un’opportunità. Un luogo in cui si impara, sì, ma soprattutto si diventa. Perché è proprio attraverso gli errori che si cresce, si impara e si diventa più consapevoli di chi siamo e di chi vorremmo diventare. “L’individuazione non è un percorso lineare, ma fatto di tentativi, inciampi e ripartenze. L’identità, infatti, non è qualcosa di fisso, ma qualcosa che si costruisce nel tempo, spesso passando attraverso l’errore. Ne parlo anche nell’articolo dedicato al Paradosso di Teseo, che esplora proprio il senso del “diventare se stessi” in un mondo che cambia: Chi sei davvero? Psicologia e il paradosso di Teseo.
È proprio qui che l’errore assume il suo valore più profondo: non come fallimento, ma come parte del processo di diventare se stessi. Ecco perché la scuola dovrebbe essere prima di tutto uno spazio sicuro dove sperimentare, commettere un errore e imparare a conoscersi. Perché senza il diritto di sbagliare, non c’è vera crescita, non c’è scoperta, non c’è individuazione”.
“Le ombre si sfiorano anche quando i corpi restano distanti. È nella giusta distanza che troviamo equilibrio: troppo vicine si sovrappongono e si fanno più scure, troppo lontane si dissolvono.”
Provare a trovare, costuire e tenere una “giusta distanza” dagli altri, dai nostri adulti significativi, dai nostri genitori, dal nostro passato, dai nostri compagni, dai nostri figli. Perché è nella giusta distanza che possiamo vedere con più chiarezza e comprendere senza giudicare.
Quando in terapia emergono storie di genitori critici, distanti o sprezzanti, spesso il dolore del cliente si scontra con la difficoltà di accettare che proprio quelle figure, che avrebbero dovuto offrire amore e sicurezza, abbiano invece ferito. È naturale ribellarsi all’idea che l’unico genitore avuto non abbia saputo fare meglio. Eppure, attraverso il percorso terapeutico, si arriva a comprendere che anche quei genitori vengono da storie difficili. Un padre ipercritico, forse, è stato cresciuto nell’assenza di affetto o con aspettative schiaccianti. Una madre distante, forse, ha imparato presto a proteggersi dal dolore isolandosi emotivamente. C’è una trasmissione generazionale di schemi relazionali che, inconsapevolmente, ricade in qualche modo nei figli.
Rompere la catena: comprendere senza giustificare
“Non possiamo cambiare ciò che è accaduto, ma possiamo cambiare come lo portiamo nella nostra mente.” – Stephen Finn
“Non tutti i ponti reggono il peso della nostra storia. Alcuni rimangono intatti, permettendoci di attraversare il passato senza ostacoli. Altri, invece, si spezzano, lasciandoci bloccati tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere.
Accettare la propria storia non significa minimizzarla o negare il dolore. Significa riconoscerla per ciò che è, senza lasciare che il passato continui a determinare il presente. Spesso si pensa che accettare voglia dire giustificare, ma in realtà vuol dire prendere atto di ciò che è stato, fare spazio alle emozioni, riconoscerle e sentirle, senza esserne sopraffatti e scegliere con consapevolezza come relazionarsi con il passato. La terapia non è un processo di giudizio, né un esercizio di perdono imposto. È un’opportunità per guardare la propria storia con nuovi occhi e trovare la giusta distanza: – una distanza che permetta di accettare il passato senza subirlo, – di sentire il dolore senza esserne schiacciati, – di riconoscere ciò che è stato senza lasciare che definisca il futuro.
Se sei in cerca di un percorso che possa aiutarti a farlo, ma non sai quale approccio scegliere, ti consiglio di leggere il mio articolo su [Come scegliere lo psicoterapeuta più adatto]
Verso una nuova relazione con sé stessi
“Credo che ogni persona, se supportata, possa trovare i giusti passi da fare per costruire una vita migliore.” – Stephen Finn
La nostra ombra porta i segni del passato, nitida e ineludibile. La strada davanti, invece, può confondersi e confonderci. Trovare la giusta distanza significa scegliere se seguire il peso di ciò che è stato o tracciare un nuovo percorso.
Spezzare i legami con il passato non significa necessariamente interrompere i rapporti con i genitori, ma ridefinire il modo in cui ci si relaziona a loro. Non sempre è possibile o sano ricostruire un rapporto stretto, ma nella maggior parte dei casi il percorso terapeutico porta a una nuova consapevolezza: quella di poter decidere con una maggiore chiarezza e comprensione maturata in terapia, se stare o no accanto ai propri genitori e con quale diverso equilibrio, ovvero costruirsi una nuova giusta distanza. Nella pratica, ciò può voler dire scegliere di non combattere più battaglie che non avranno mai un vincitore, smettere di cercare conferme da chi non ha mai saputo darle, o accettare i limiti di chi ci ha cresciuti senza che questi definiscano il nostro valore.
L’Assessment Collaborativo: nuove strade da esplorare
Trovare la giusta distanza è un percorso delicato, fatto di equilibri sottili tra vicinanza e protezione, tra comprensione e autonomia. A volte siamo come ombre che si sfiorano, capaci di sentirci vicini anche senza toccarci; altre volte, siamo su ponti spezzati, sospesi tra il desiderio di unire ciò che è diviso e la necessità di accettare che alcune distanze non possono essere colmate.
L’Assessment Collaborativo non offre risposte definitive, ma aiuta a tracciare nuove mappe interiori, a costruire nuovi ponti o, quando necessario, ad attraversare quelli già esistenti con maggiore consapevolezza. Non si tratta solo di elaborare il passato, ma di scegliere con quale passo e da quale distanza vogliamo camminare nel nostro futuro.
Per approfondire i principi dell’Assessment Terapeutico, puoi guardare questo video in cui il Dott. Stephen Finn ne parla in dettaglio: [YouTube link]
Il Paradosso della Nave di Teseo ci pone una domanda affascinante: se nel tempo sostituiamo ogni parte di una nave, pezzo dopo pezzo, possiamo ancora dire che sia la stessa nave?
E se tutte le cellule del nostro corpo cambiano nell’arco di pochi anni, siamo ancora la stessa persona di un tempo?
Cresciamo, cambiamo, viviamo esperienze che ci trasformano. Il nostro corpo rinnova ogni sua cellula nel corso degli anni. La nostra mente si evolve, i nostri pensieri non sono più quelli di un tempo. Eppure, ci sentiamo sempre noi stessi. Ma allora, cosa definisce davvero la nostra identità?
Ci piace pensare alla nostra identità come qualcosa di fisso, stabile, immutabile. Ma la verità è che cambiamo continuamente: esperienze, relazioni, successi e fallimenti modellano il nostro modo di essere. A volte il cambiamento è evidente, altre volte è più sottile, nascosto sotto il velo delle abitudini e delle convinzioni che abbiamo su di noi.
L’identità tra cambiamento e continuità
Secondo Eraclito, “nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume due volte, perché né l’uomo né il fiume saranno gli stessi.” L’identità sembra muoversi tra due poli: da un lato, il cambiamento continuo; dall’altro, la sensazione di essere sempre la stessa persona. La nostra identità è profondamente legata ai ricordi. Il passato, attraverso la memoria, costruisce un senso di continuità, una linea che collega il nostro primo ricordo fino al presente. Tuttavia, la percezione di sé non è statica: cambia nel tempo, si arricchisce, si rinnova. Chi eravamo dieci anni fa non è esattamente chi siamo oggi, eppure ci riconosciamo in entrambi.
Cosa accade quando il senso di continuità si spezza?
Questa percezione di unitarietà è fondamentale per la nostra vita psichica. Alcune forme di sofferenza mentale derivano proprio da una frattura nell’identità: momenti in cui non ci sentiamo più in connessione con chi siamo, in cui sembra di aver perso una parte di noi stessi. Quando questo accade, si crea una distanza tra il nostro passato e il presente, lasciandoci smarriti. Eppure, il cambiamento non è una minaccia, ma una possibilità di crescita. Il fuoco di Eraclito rappresenta perfettamente questa dinamica: cambia continuamente, ma nella sua continua trasformazione mantiene inalterata la sua essenza.
L’Assessment Collaborativo : una nuova prospettiva su di sé
L’Assessment Collaborativo aiuta proprio a esplorare questa tensione tra cambiamento e continuità, offrendo un nuovo modo di guardare alla propria storia. Spesso ci incaselliamo in definizioni rigide: “Io sono così, non cambierò mai.” Ma se la nave di Teseo può essere sostituita pezzo dopo pezzo e rimanere se stessa, perché non può essere lo stesso per noi? L’Assessment Collaborativo non impone un’identità, ma aiuta a comprendere come siamo arrivati a essere ciò che siamo oggi, a riconoscere il nostro percorso e a renderci consapevoli del fatto che possiamo scegliere in che direzione andare. Non si tratta di diventare qualcun altro, ma di acquisire un nuovo sguardo su noi stessi e sulla nostra evoluzione.
Chi siamo davvero?
Ogni sette anni, ogni cellula del nostro corpo viene sostituita, e persino gli atomi che ci compongono cambiano continuamente. Come facciamo ad affermare di essere sempre noi stessi se non abbiamo più nemmeno un atomo di quelli preso in prestito dai nostri genitori?
Se nulla di ciò che eravamo fisicamente esiste più, cosa ci rende ancora noi stessi?
La consapevolezza è la chiave della conoscenza, del cambiamento e, quindi, della nostra identità nel qui e ora. Non è la materia a definirci, ma il filo invisibile delle nostre esperienze, il modo in cui diamo senso ai nostri ricordi e intrecciamo le relazioni che ci accompagnano nel tempo.
Forse non siamo qualcosa di immutabile, ma un equilibrio dinamico tra ciò che cambia e ciò che resta. Un’identità in continua evoluzione, ma sempre profondamente nostra.
Se potessi scegliere, quale parte di te vorresti trasformare?
La recente scomparsa di David Lynch ci spinge a riflettere sull’eredità culturale e psicologica di un autore che ha saputo esplorare con maestria i territori più oscuri e complessi della mente umana. Il suo cinema, in particolare Strade perdute (Lost Highway), rappresenta un esempio straordinario di come cinema e psicologia possano incontrarsi per indagare le profondità dell’inconscio.
La metafora del viaggio interiore
In Strade perdute, Lynch ci conduce in un universo narrativo dove il confine tra realtà e finzione è volutamente sfumato. Questo labirinto visivo e psicologico riflette perfettamente il processo terapeutico e il confronto con l’inconscio. Il protagonista, Fred Madison, è un musicista che si ritrova prigioniero di eventi e identità che non riesce a spiegare, proprio come accade ai pazienti che iniziano un percorso psicoterapeutico: si scontrano con sintomi, emozioni e pensieri che sembrano provenire da un “altro mondo”, ma che in realtà emergono dalle parti rimosse di sé.
Fred afferma: “Preferisco ricordare le cose a modo mio.” Questa frase sintetizza il tentativo di controllare una realtà frammentata attraverso una narrazione personale, spesso distorta, che protegga dal dolore e dalla confusione. Questo meccanismo difensivo è comune anche nella psiche umana, dove la rimozione e la distorsione dei ricordi servono a mantenere un equilibrio apparente. Ma cosa succede quando queste difese crollano?
L’inconscio e il conflitto psichico
Lynch attinge profondamente alla psicoanalisi freudiana, rappresentando visivamente il conflitto tra Io, Es e Super-Io. In Strade perdute, il protagonista affronta un mondo deformato, dove la logica lascia spazio al simbolismo onirico. Questo non è molto diverso dal lavoro psicoterapeutico, dove sogni, desideri e traumi rivelano la loro influenza nascosta sulla nostra vita quotidiana. Il concetto di “strade perdute” diventa quindi una potente metafora dell’inconscio: quei percorsi mentali dimenticati o negati che continuano a influenzare le nostre scelte, anche senza che ne siamo consapevoli. Fred si ritrova in un ciclo di eventi apparentemente senza via d’uscita, un’immagine che rappresenta la ripetizione dei conflitti irrisolti che molti pazienti portano in terapia.
La discesa nelle ombre: la psicoterapia come trasformazione
Proprio come Fred, che si addentra nelle sue “strade perdute”, il paziente in terapia intraprende un viaggio di scoperta che può essere doloroso ma anche profondamente trasformativo. L’obiettivo non è cancellare il passato, ma rileggerlo, comprenderlo e integrarlo in una nuova narrazione personale. Nel film, la destrutturazione dell’identità di Fred riflette il momento cruciale in cui il vecchio senso del sé viene messo in discussione. Questo passaggio è necessario per accedere a una consapevolezza più autentica. In psicoterapia, il terapeuta guida il paziente in questo percorso, aiutandolo a confrontarsi con i suoi traumi e le sue ombre interiori, per costruire una realtà più complessa ma anche più vera.
L’eredità di Lynch: un ponte tra arte e psicologia
David Lynch ha saputo rappresentare visivamente ciò che accade dentro di noi quando affrontiamo le contraddizioni e i conflitti che ci definiscono. La sua poetica ci ricorda che la mente umana non è un insieme rigido e razionale di pensieri, ma un tessuto fluido in cui sogni e realtà si intrecciano. Questo approccio risuona profondamente con la psicoterapia, che si basa proprio sull’esplorazione dell’inconscio e sul confronto con le parti rimosse del sé. Lynch ci insegna che la realtà non è mai oggettiva, ma è plasmata dai nostri desideri, paure e traumi. Il suo cinema è un invito a guardare oltre la superficie delle cose, a scendere nelle profondità della mente per scoprire chi siamo davvero.
Conclusioni: affrontare le proprie “Strade Perdute”
La morte di David Lynch ci priva di un artista straordinario, ma la sua opera resta una fonte inesauribile di riflessione. Strade perdute non è solo un film, ma una lezione sulla condizione umana: ci invita a esplorare quei luoghi della mente che spesso preferiamo evitare, ma che contengono le chiavi per la nostra crescita personale. In psicoterapia, proprio come nel viaggio di Lynch, non esistono risposte facili o lineari, ma è affrontando le nostre “strade perdute” che possiamo raggiungere una comprensione più profonda di noi stessi e del nostro rapporto con il mondo. Se senti il bisogno di intraprendere questo viaggio interiore, ricorda che non sei solo. Un percorso terapeutico può aiutarti a dare un senso alle tue esperienze e a scoprire nuove prospettive su chi sei e su chi vuoi diventare.
L’isolamento sociale è un fattore determinante per il consumo continuato di droghe
Le dipendenze sono l’unica scelta?
C’è sempre questa facilità di giudizio, leggevo di queste dichiarazioni, tra cui: “La droga è m**da e chi si droga è un cogl**ne”
C’è sempre questa facilità di giudizio sugli altri, senza neanche sapere da dove l’altro viene, che storia porta con sè e di sè, quando basterebbe provare a volte a mettere i piedi nelle scarpe dell’altro per capire dove e come noi saremmo potuti arrivare e con quali difficoltà o se non avremmo addirittura fatto di peggio.
C’è sempre questa facilità di giudizio, quando si parla di dipendenze e c’è chi è dipendente dal gioco d’azzardo, dal sesso, da una persona, dai social, dal cibo, dall’alcool, dallo shopping, non solo dalle droghe, e le dipendenze sono, semplificando, “l’unica scelta”, ma dobbiamo capirne di più, dobbiamo andare oltre, anche perchè quasi tutto quello che pensiamo di sapere sulla dipendenza potrebbe essere sbagliato.
L’esperimento del RAT-PARK
Negli anni 60, hanno fatto un esperimento: hanno preso un ratto, l’hanno messo in una gabbia singola e gli hanno dato due bottiglie di acqua, una contenente acqua fresca e l’altra acqua con la droga che da più dipendenza, l’eroina; il topo preferiva sempre l’acqua con la droga e consumava, in molti casi, tutta la quantità fino a procurarsi la morte.
Alla fine degli anni 70 il professore Bruce Alexander, docente di psicologia dell’università di Vancouver, ha osservato questo esperimento notando però che il ratto di turno era sempre messo in gabbia da solo, quindi decise di costruire una gabbia collettiva enorme, quasi 200 volte più grande: un RAT-PARK, ovvero un parco giochi per topi, abbellito con alberi ed elementi naturali dove vennero anche inseriti altri topi provenienti dal mondo esterno.
A questo punto, tutti i topi, sia quelli in gabbia che quelli nel parco, avevano sempre accesso alla possibilità di bere i due liquidi, ma mentre quelli in gabbia singola preferivano sempre l’acqua con l’eroina, i topi nel RAT-PARK preferivano maggiormente l’acqua fresca senza nessuna aggiunta di altre sostanze.
L’esperimento del RAT-PARK ha dimostrato che l’isolamento sociale è un fattore determinante per il consumo continuato di droghe.
La libertà e la compagnia dell’altro fanno calare drasticamente la dipendenza; l’opposto della dipendenza non è la sobrietà, ma la relazione.
Cosa s’intende per dipendenza?
Con il termine dipendenza si intende una condizione in cui l’organismo ha bisogno di una determinata sostanza per funzionare e sviluppa una dipendenza fisico-chimica da essa.
Non esiste una teoria unitaria a proposito dell’uso e della dipendenza da sostanze psicoattive o, più in generale, dell’addiction.
Spesso il termine addiction è usato come sinonimo di dipendenza, tuttavia il termine addiction, denota la dipendenza che spinge l’individuo alla ricerca dell’oggetto di dipendenza, senza il quale la sua esistenza diventa priva di significato: è dunque un coinvolgimento crescente e persistente della persona al punto che l’oggetto di dipendenza pervade i suoi pensieri ed il suo comportamento.
Lo psicologo Stanton Peel sostiene che la dipendenza non è una patologia cronica del cervello o un fenomeno biologico, ma un processo che può essere indagato solo soggettivamente in termini di valori, finalità, motivazione, esperienza, relazioni.
L’uso di sostanze da parte dell’essere umano è situato in un’ecologia, in cui i fattori biologici, psicologici e sociali si incontrano ed esercitano reciproca influenza sui risultati.
Tra alcune delle principali ipotesi e teorie di riferimento citiamo: L’approccio neurobiologico: sistema di reward, neurotrasmettitori e neuroadattamento, L’ipotesi di automedicazione, La teoria dell’attaccamento, Le teorie cognitivo-comportamentali e La teoria sociocognitiva di Bandura.
L’ipotesi di automedicazione di cosa parla?
La SMH, Self-Medication Hypothesis o ipotesi di automedicazione di E.J. Khantzian deriva dalla prospettiva psicodinamica ed è guidata da un approccio umanistico al paziente, è applicabile anche alle dipendenza senza uso di sostanze, ovvero alle new addictions.
Questa ipotesi, formulata negli anni Settanta dice che le droghe diventano additive perché hanno l’effetto potente di alleviare, rimuovere o cambiare il dolore e la sofferenza psicologica, sentita come insopportabile.
Le droghe riducono la rabbia, l’ansietà, la depressione e stati affettivi dolorosi e non è tanto il piacere che i dipendenti cercano, quanto piuttosto di regolare le loro emozioni e scappare da sentimenti costanti di deprivazione, vergogna e inadeguatezza; l’automedicazione, quindi è parte del sistema difensivo e di adattamento.
Edward Khantzian, dopo la casistica dei soggetti da lui trattati, dice che il tipo di droga era selezionato in modo tale che le proprietà farmacologiche della sostanza fossero idonee ad alleviare gli stati affettivi disturbanti del soggetto. Le droghe, quindi, vengono scelte attraverso successivi tentativi in cui i consumatori si imbattono in una droga che allevia specifici affetti.
Quale droga viene scelta e perchè?
La maggior parte preferisce una classe specifica di droghe che induce determinati effetti e viene incontro ai bisogni psicologici centrali della persona, nello specifico:
a) gli oppiacei vengono assunti per fronteggiare stati di disforia (disturbo dell’umore affine agli stati di depressione e di irritazione; opposto di euforia) associati ad aggressività e rabbia;
b) gli stimolanti e la cocaina vengono assunti per fuggire da uno stato depressivo e di vuoto, per alleviare sentimenti di noia, morte interna e mancanza di significato nella vita (vengono anche usati da persone con disturbi dell’attenzione per i loro paradossali effetti calmanti);
c) i sedativi e l’alcol vengono utilizzati per fare cadere le inibizioni e l’ipercontrollo e per ridurre la tensione e gli stati ansiosi;
d) la cannabis e gli allucinogeni vengono usati per combattere l’isolamento.
Esistono a supporto della teoria dell’automedicamento alcuni studi sperimentali, tra questi particolarmente interessante è quello condotto nel 1977 da Wusmer L. e Pecksnifr Mr.
Si tratta di una ricerca in cui un gruppo di eroinomani è stato trattato con doxepina (antidepressivo) e paragonato ad un gruppo di controllo trattato con placebo. L’antidepressivo ha provocato una significativa riduzione del craving ovvero del desiderio incontrollabile di assumere la sostanza, in questo caso l’eroina.
Gli autori, quindi, conclusero che gli eroinomani fossero affetti da sindrome ansioso-depressiva che andava in remissione per effetto del trattamento di un farmaco antidepressivo.
Per quel che riguarda le new addictions è stato ipotizzato che, anche per queste dipendenze, possa essere valida la teoria di Khantzian.
Quali dipendenze sono più complicate da superare?
In ordine di difficoltà, secondo Stanton Peel, le sette dipendenze più complicate da superare:
“Come devo comportarmi con mio figlio?” o “Noi come genitori stiamo facendo il bene di nostro figlio?
Queste o altre domande simili, sono quasi sempre le stesse che raccolgo nel primo o secondo incontro dell’Assessment collaborativo familiare, dove sono presenti entrambi i genitori, il figlio/a, sia che sia minorenne che maggiorenne, fratelli o sorelle, ed eventualmente altri adulti di riferimento.
Il percorso di psicoterapia familiare può consentire di riscrivere una storia familiare più accurata e di ristabilire le appropriate gerarchie strutturali nella famiglia di ciascun membro familiare da parte degli altri.
Tale percorso può permettere anche di de-triangolare, (il termine triangolazione identifica una specifica dinamica relazionale nella quale la comunicazione e le interazioni tra due individui non avvengono direttamente, ma sono mediate da una terza persona) ovvero di evitare quindi che il figlio viva al posto dei genitori le loro dinamiche disfunzionali.
Per approfondire il concetto di triangolazione e il ruolo della terapia familiare, puoi consultare questo interessante articolo delle teorie di Murray Bowen e Jay Haley.
L’assessment collaborativo familiare è rivolto alla gestione e risoluzione di momento di crisi, all’elaborazione cognitiva, emotiva e relazionale delle personali difficoltà e al miglioramento della propria qualità di vita.
Se senti che potrebbe esserti utile un supporto psicologico ma non sai quale professionista faccia al caso tuo, ti consiglio di leggere il mio articolo su Come scegliere lo psicoterapeuta più adatto?.
“Perchè sento di aver sbagliato con mio figlio?”
Alla fine del percorso avremo modo di rispondere assieme, in modo collaborativo, a tutte le vostre domande, questo grazie ai test che utilizzeremo proprio con la finalità di aumentare la nostra consapevolezza su tutte le dinamiche relazionali nonché comprendere il funzionamento personologico di tutti i membri familiari.
Massimo Recalcati, psicanalista e saggista italiano, in una delle tante conferenze, dopo l’analisi della figura del padre e della madre, completa un’ideale trilogia soffermandosi sulla figura del figlio, con il suo libro “Il segreto del figlio” ci dice che il compito primo, il più alto e il più difficile dei genitori è quello di avere fede nel segreto incomprensibile del figlio e nel suo splendore.
Recalcati continua dicendo, al Festivaletteratura di Mantova: “Ogni figlio è una poesia. In che senso un figlio è una poesia?
Una poesia esiste quando abbiamo un certo rapporto tra il linguaggio e la parola, non c’è poesia senza linguaggio, la condizione della poesia è l’esistenza del linguaggio, la condizione del figlio è l’esistenza dei genitori, non c’è poesia senza linguaggio cosi come non c’è figlio senza genitori.
La poesia è già tutta contenuta nel linguaggio? No, perché ci sia poesia, bisogna che ci sia un evento, c’è bisogno di un’invenzione, c’è bisogno di una creazione.
Il linguaggio offre lo strumento perchè la poesia generi una creazione nuova ed è esattamente il problema del figlio.
Il figlio è una poesia perché origina dal linguaggio, cioè dai suoi genitori, dalla vita dell’altro, ma il suo compito è diventare poesia, cioè diventare qualcosa che non era previsto dall’altro, qualcosa di nuovo, una vita differente, dalla vita dell’altro, in questo senso ogni figlio è uno sforzo di poesia.
Ogni figlio ha la sua provenienza nell’altro, ogni figlio proviene dai suoi genitori ma il compito di ogni figlio è farsi vita differente dalla vita dei suoi genitori.
Ogni genitore si trova, prima o poi, a porsi domande difficili sul proprio ruolo e sul benessere dei figli. L’Assessment Collaborativo Familiare offre uno spazio per comprendere meglio le dinamiche relazionali, sciogliere nodi comunicativi e ritrovare una nuova armonia. Non si tratta di cercare colpe, ma di costruire consapevolezza e nuove possibilità di relazione.
Se senti che è il momento di approfondire queste tematiche e vuoi capire se questo percorso può fare al caso tuo, contattami per un primo confronto. Insieme possiamo trovare il modo migliore per supportare la crescita e l’equilibrio della tua famiglia.
Non tutti gli psicoterapeuti lavorano allo stesso modo: ecco le 5 macrocategorie (+1) per scegliere meglio!
Cerchiamo di scoprirlo assieme
Scegliere il giusto psicoterapeuta è un passo fondamentale per intraprendere un percorso di crescita e cambiamento. L’Ordine degli Psicologi ha fornito alcune indicazioni utili su questo tema: Come scegliere uno psicoterapeuta. Esistono diversi approcci terapeutici, e capire quale sia il più adatto alle proprie esigenze può fare la differenza. Per aiutarti nella scelta, possiamo suddividere i principali orientamenti della psicoterapia in cinque (5) macrocategorie, più una (1) sesta che li integra.
(1) ti senti che il tuo comportamento è guidato da motivi inconsapevoli e vuoi di conseguenza fare chiarezza sulla tua storia evolutiva? Potrebbe interessarti uno pscioterapeuta che ha un approccio Psicodinamico, Psicanalitico, Analitico-Transazionale;
(2) ti senti che l’aspetto inconscio non sia rilevante ma pensi piuttosto che sia più interessante cambiare il tuo modo di pensare piuttosto che altro? Potrebbe interessarti uno psicoterapeuta che ha un approccio Cognitivista;
(3) ti senti di non voler esplorare il tuo passato ma vuoi semplicemente cambiare il tuo comportamento nell’immediato, nel “qui ed ora”? Potrebbe interessarti un approccio Comportamentista o Strategico;
(4) ti senti di voler lavorare a livello delle emozioni senza concettualizzare eccessivamente? Potrebbe interessarti un approccio Gestaltico;
(5) ti senti che intendi lavorare a livello familiare e non solo in modo individuale? Potrebbe interessarti uno psicoterapeuta cha ha un approccio Sistemico-Relazionale.
Ti riconosci in più approcci teorici tra quelli appena elencati?
Potrebbe interessarti uno psicoterapeuta che ha un approccio Integrato (ovvero un approccio che si fonda su più costrutti e modelli teorici di riferimento).
Il mio approcciocome psicoterapeuta
Personalmente, il mio metodo si basa su un approccio Integrato, che unisce elementi della psicoterapia Psicodinamica (1) e Sistemico-Relazionale (5), per offrire un percorso su misura, capace di tenere conto sia della storia individuale che delle dinamiche relazionali.
Se vuoi approfondire come la terapia può aiutarti a trovare un equilibrio nelle relazioni, ti consiglio di leggere il mio articolo su La giusta distanza in psicoterapia.
Vuoi approfondire o hai dubbi su quale sia l’approccio migliore per te? Prenota un primo colloquio per esplorare insieme il percorso più adatto alle tue esigenze. Contattami per maggiori informazioni!
Quando il cibo diventa linguaggio: il ruolo della famiglia nella guarigione.
Nella cura dei disturbi alimentari, sono coinvolte diverse figure professionali dell’area sanitaria, con un approccio multidimensionale, interdisciplinare e pluriprofessionale. Qual è, in questo quadro, il ruolo della psicoterapia? Lo spiega lo psicologo e psicoterapeuta spezzino Alessio Novarelli. “Il primo obiettivo si identifica sostanzialmente con la costruzione di una relazione di fiducia; queste persone sono in genere diffidenti o molto sfiduciate: occorre ingaggiarle nel trattamento verso il cambiamento ed “abbracciare” l’intero sistema familiare. Vivono, infatti, la propria condizione non come un disturbo o una malattia da curare, ma come una scelta di vita, tanto che il controllo dell’alimentazione e del peso corporeo viene descritto come ‘luna di miele’ con la malattia”.
“Perchè è utile affiancare la psicoterapia individuale ad una psicoterapia familiare nei disturbi alimentari? “
Novarelli pone l’accento sull’indagine e il trattamento, con la psicoterapia individuale, riguardo l’aspetto legato alle difficoltà interpersonali, alla mancanza di relazioni significative soddisfacenti “per cui l’atteggiamento anoressico o bulimico può rappresentare una difesa rispetto a ciò che non si vuol ‘sentire’”. “L’approccio relativo al modello sistemico relazionale individua le modalità di relazione tra i nuclei familiari e quelle particolari dinamiche che favoriscono il mantenimento di questo status.
“La psicoterapia familiare perchè è utile nei disturbi del comportamento alimentare?”
La psicoterapia familiare è quella ritenuta più utile, poiché aiuta il genitore a comprendere meglio gli aspetti patologici del disturbo dei propri figli e può essere valida per interrompere il circolo vizioso tra le criticità e la malattia”. Si mette, così, in evidenza il significato relazionale del sintomo, introducendo una visione circolare e relazionale dei comportamenti di tutti i membri della famiglia, che potranno modificare le regole disfunzionali del nucleo, sostituendole con altre più funzionali. “Il compito del terapeuta è cogliere rapidamente quali sono le regole che generano e perpetuano la disfunzione ed escogitare un intervento che rompa la regola sul piano di azione.
“Qual è la finalità della terapia familiare nei disturbi alimentari”
La finalità della terapia familiare è di individuare il significato che il cibo assume nella famiglia: questo aiuterebbe i suoi componenti a sperimentare altre dinamiche più adeguate e flessibili, altri linguaggi, riportando il cibo nella sua collocazione più giusta”. Quali gli effetti benefici della psicoterapia familiare? “I genitori aumentano le loro conoscenze sullo sviluppo dell’adolescente e su come modificare le loro modalità genitoriali in risposta ai bisogni evolutivi del figlio; vengono interrotti i meccanismi reciproci di identificazione-proiettiva, dando ai membri della famiglia la possibilità di riappropriarsi delle parti di sé proiettate”.
Scopri di più leggendo l’articolo pubblicato nel quotidiano La Nazione
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Pensi possibile che una persona sia per noi cosi importante da motivarci a compiere una pazzia come salire su un elicottero con un pilota ubriaco?
Hai mai sentito parlare del concetto di base sicura in psicologia? Si tratta di quella sensazione di sicurezza emotiva che ci permette di affrontare le sfide della vita con maggiore fiducia. Spesso, una persona significativa per noi può diventare la nostra base sicura, motivandoci e spingendoci oltre i nostri limiti.
Walter Mitty e il coraggio che nasce da una base sicura
Walter: “Forse ti sembrerà strano ma stavo pensando a te. Quando ero in Groenlandia, là sai fanno il karaoke e… io… dovevo salire su un elicottero e il pilota era ubriaco da morire… ho cominciato a pensare a te che che cantavi Major Tom … è stato quello che mi ha fatto salire sull’elicottero e mi ha fatto arrivare dove volevo arrivare”
Nel film I sogni segreti di Walter Mitty, il protagonista trova coraggio nel pensiero di qualcuno di speciale, riuscendo così a superare le proprie paure. Ma come funziona questo meccanismo nella realtà? Scopriamolo insieme. Walter è il protagonista del film “I sogni segreti di Walter Mitty” …ma non vorrei parlarne troppo, penso che vi meritiate di vederlo e di interpretarlo a modo vostro. Mi permetto però di dirvi che a Walter capita di perdere il senso del tempo e di apparire “incantato” e che questo suo tratto non fa altro cha alimentare la derisione dei colleghi, fatto per cui gli viene attribuito l’appellativo di Major Tom, in riferimento al brano Space Oddity di David Bowie.
Il significato di Space Oddity: la storia del Maggiore Tom
Space Oddity racconta le vicende del Maggiore Tom, un astronauta che, staccatosi dalla Terra e uscito dalla sua capsula per affrontare una passeggiata in orbita, a un certo punto interrompe i contatti con la Torre di controllo e si perde nello spazio. Osservando la terra da lontano, Tom viene travolto da un’intensa malinconia e si ribella alla sua missione e mentre dalla Torre non capiscono cosa stia succedendo, sceglie di rimanere lassù, isolato da tutto e tutti, con lo sguardo fisso verso il nostro pianeta “blue” (tradotto dall’inglese significa blu come il colore ma vuol dire anche triste).
Cheryl: il sostegno che aiuta Walter Mitty a crescere
Non tutti i colleghi di Walter lo deridono, anzi e tra gli altri c’è Cheryl di cui è segretamente innamorato. Cheryl: “Volevo dirti una cosa su quella canzone del Maggiore Tom. Quella di cui parlava il tizio con la barba. Lui non sa di cosa parla. Quella canzone parla di coraggio e di affrontare l’ignoto. È una canzone mitica”Cheryl è amichevole, gentile e sostiene Walter rappresentando lentamente un legame sia con la realtà che con il mondo professionale contribuendo al percorso di crescita e di auto-esplorazione.
Il potere della base sicura: sentirsi al sicuro anche da soli
Alcune persone possano influenzare positivamente il nostro benessere emotivo, permetterci di esplorare la realtà e individuare e conseguire i nostri obiettivi personali. Questi benefici sono conseguenti ad una base sicura interiorizzata che è come una specie di sensazione di sicurezza che portiamo con noi dentro di noi. È un po’ come avere una piccola coperta emotiva immaginaria. Questa “coperta” ci fa sentire al sicuro anche quando le persone importanti non sono fisicamente vicine. In poche parole, una base interiorizzata è come una fonte di conforto che portiamo dentro di noi, che ci aiuta a sentirsi al sicuro ed equilibrati anche quando siamo da soli…. magari in Groenlandia e magari compiere una pazzia che ci “libera” e ci fa “volare” (enfatizzando e romanzando)
Scopri di più sul mio approccio terapeutico e su come posso aiutarti a sviluppare nuove risorse interiori.
Hai mai vissuto un momento in cui il pensiero di una persona cara ti ha dato la forza di affrontare una sfida? Ti è mai capitato di trovare coraggio grazie a qualcuno di speciale? Rifletti su come questa base sicura abbia influenzato le tue scelte.
Se questo tema ti interessa, seguimi per altri approfondimenti!