SCOPRIRE LA PROPRIA BASE SICURA INTERIORE SIGNIFICA IMPARARE A ESSERE QUELLA PRESENZA CHE NON ABBANDONA, NEMMENO QUANDO TUTTO TACE
Imparare a costruire la propria base sicura interiore: la voce che ci accompagna anche quando tutto tace.
Ci sono parole che cambiano la direzione di una giornata. E a volte, l’unica cosa di cui abbiamo davvero bisogno è una persona. Una persona che ci dica: “Stai tranquillo, tu ce la farai, io credo in te, vai avanti, non mollare.”
E a volte, quella persona dobbiamo essere noi stessi.
Ci sono momenti in cui il mondo sembra distante, e le parole che vorremmo sentire non arrivano da nessuno. È allora che possiamo imparare a pronunciarle dentro di noi, a diventare quella voce che sostiene, che crede, che accoglie. Essere quella presenza che non abbandona, nemmeno quando tutto tace.
Quando impariamo a costruire la nostra base sicura interiore
Nel percorso psicologico impariamo a costruire una base sicura interiore, una voce capace di accompagnarci anche nei momenti di solitudine. Non è isolamento, ma maturità emotiva: la capacità di restare accanto a sé stessi senza fuggire, di contenere le proprie emozioni, di accogliere la vulnerabilità come parte della vita.
Secondo John Bowlby, la “base sicura” è la radice di ogni legame sano: è ciò che ci permette di esplorare il mondo sapendo di poter tornare in un luogo sicuro. Nella terapia, questo luogo comincia a esistere dentro di noi.
Nel percorso terapeutico: costruire una base sicura interiore
Nel lavoro clinico, mi accorgo che la svolta arriva proprio qui: quando una persona sente che può contare su sé stessa, che può parlarsi con gentilezza invece che con giudizio, che può scegliere di restare, invece di scappare.
Diventare la propria base sicura interiore significa imparare a riconoscere i propri bisogni senza colpa e a reggere le emozioni senza negarle. È un atto di resilienza psicologica e di autocompassione profonda.
La terapia offre lo spazio dove questa voce può nascere e consolidarsi: un’esperienza di accoglienza che, con il tempo, diventa parte del proprio modo di vivere, amare e pensarsi.
Essere la voce che avremmo voluto accanto
Diventare la propria base sicura interiore non significa non aver bisogno degli altri, ma scegliere relazioni più libere e reciproche. Significa smettere di aspettare salvezze esterne e cominciare a costruire fiducia, presenza e ascolto.
È la capacità di diventare quella voce che avremmo voluto accanto: calda, ferma, paziente. Una voce che ci dice — anche quando tutto tace — che possiamo farcela.
Conclusione: il valore di una base sicura interiore
La base sicura interiore non è un traguardo, ma un processo. Ogni volta che impariamo a sostenerci, stiamo costruendo dentro di noi una nuova possibilità di fiducia e consapevolezza.
Se vuoi approfondire come si sviluppa questa voce interiore attraverso la psicoterapia, leggi anche Imparare a lasciare andare: un passo ulteriore nel percorso verso una presenza più stabile e compassionevole.
La scuola non dovrebbe solo insegnare, ma accogliere
“Ci sono cose che a scuola non si imparano dai libri, ma dagli sguardi, dai silenzi, da un adulto che sceglie di esserci davvero.” La scuola dovrebbe essere molto più di un luogo di voti e interrogazioni. Dovrebbe essere uno spazio dove gli studenti imparano a scoprire chi sono, a esplorare le proprie passioni, e a commettere errori senza paura, perché è proprio attraverso l’errore che si cresce. Eppure, spesso l’attenzione è focalizzata solo sul rendimento, senza considerare che dietro ogni ragazzo c’è una storia, un mondo interiore complesso.
Quando un insegnante sceglie di ascoltare, non di giudicare
Mi ricordo che quando ero in terza o quarta superiore attraversavo un periodo difficile. Come tanti ragazzi della mia età, mi sentivo perso tra le trasformazioni familiari, fisiche ed emotive. Non andavo bene in molte materie, facevo numerose assenze e ogni giorno mi sembrava più complicato del precedente. Un giorno, una professoressa mi chiamò alla cattedra per interrogarmi. Ero convinto che sarebbe stata l’ennesima esperienza negativa, l’ennesimo voto che avrebbe pesato sul registro. Avevo già la testa bassa, convinto di non sapere abbastanza, di non essere all’altezza. Ma appena mi fu vicino, abbassò la voce e mi disse che non era sua intenzione interrogarmi davvero. In quel momento, capii che voleva solo parlarmi, sapere come stavo, capire cosa stessi attraversando.
Un gesto semplice può cambiare tutto
Quello che mi colpì di più fu il modo in cui lo fece. Non mi mise in difficoltà davanti alla classe, non attirò l’attenzione su di me. Parlava a voce bassa, assegnava compiti agli altri studenti, simulava un’interrogazione vera e propria. Nessuno si accorse di nulla, e io mi sentii protetto, ascoltato, riconosciuto. Mi guardò e mi chiese semplicemente come stavo. Mi diede quel tempo per parlare di me, per raccontarle cosa stavo provando. Fu un gesto semplice, ma potentissimo. Quella donna, quell’insegnante, in quel momento non era solo una professoressa. Era un’adulta che si prendeva cura di un ragazzo. Mi insegnò che a volte basta poco per fare la differenza nella vita di qualcuno: uno sguardo, una parola, un gesto discreto. In quel gesto c’era ciò che ogni adulto può rappresentare per un giovane in difficoltà: una presenza che ascolta, accoglie e guida. Per molti genitori questo interrogativo è vivo ogni giorno: Come posso essere d’aiuto a mio figlio? Ne parlo anche qui: Cosa posso fare con mio figlio?
L’errore come strada per conoscersi
Forse la cosa più bella della psicologia analitica di Jung è il concetto di individuazione, che può essere riassunto nella frase emblematica di Nietzsche: “Diventa ciò che sei”. I bambini crescono osservando, imitando, ma poi arriva un momento in cui devono staccarsi da quell’imitazione e trovare la propria strada.
“Diventa ciò che sei”: l’individuazione tra sbagli e consapevolezza
L’oracolo di Delfi diceva “gnōthi sautón”, conosci te stesso, e la prima condizione per diventare se stessi è proprio questa: conoscersi, scoprire le proprie potenzialità, accettare le proprie vulnerabilità. Ma come si fa a conoscersi davvero, se non si ha lo spazio per sbagliare? Jung diceva che per individuarsi bisogna uscire dai comportamenti collettivi, non adattarsi ciecamente, ma trovare il proprio modo di essere nel mondo. E per farlo, è necessario attraversare tentativi ed errori, cadute e risalite. È necessario sbagliare.
Il valore dell’errore nella scuola e nella vita
Per questo, la scuola dovrebbe essere un luogo dove l’errore non è una condanna, ma un’opportunità. Un luogo in cui si impara, sì, ma soprattutto si diventa. Perché è proprio attraverso gli errori che si cresce, si impara e si diventa più consapevoli di chi siamo e di chi vorremmo diventare. “L’individuazione non è un percorso lineare, ma fatto di tentativi, inciampi e ripartenze. L’identità, infatti, non è qualcosa di fisso, ma qualcosa che si costruisce nel tempo, spesso passando attraverso l’errore. Ne parlo anche nell’articolo dedicato al Paradosso di Teseo, che esplora proprio il senso del “diventare se stessi” in un mondo che cambia: Chi sei davvero? Psicologia e il paradosso di Teseo.
È proprio qui che l’errore assume il suo valore più profondo: non come fallimento, ma come parte del processo di diventare se stessi. Ecco perché la scuola dovrebbe essere prima di tutto uno spazio sicuro dove sperimentare, commettere un errore e imparare a conoscersi. Perché senza il diritto di sbagliare, non c’è vera crescita, non c’è scoperta, non c’è individuazione”.
La recente scomparsa di David Lynch ci spinge a riflettere sull’eredità culturale e psicologica di un autore che ha saputo esplorare con maestria i territori più oscuri e complessi della mente umana. Il suo cinema, in particolare Strade perdute (Lost Highway), rappresenta un esempio straordinario di come cinema e psicologia possano incontrarsi per indagare le profondità dell’inconscio.
La metafora del viaggio interiore
In Strade perdute, Lynch ci conduce in un universo narrativo dove il confine tra realtà e finzione è volutamente sfumato. Questo labirinto visivo e psicologico riflette perfettamente il processo terapeutico e il confronto con l’inconscio. Il protagonista, Fred Madison, è un musicista che si ritrova prigioniero di eventi e identità che non riesce a spiegare, proprio come accade ai pazienti che iniziano un percorso psicoterapeutico: si scontrano con sintomi, emozioni e pensieri che sembrano provenire da un “altro mondo”, ma che in realtà emergono dalle parti rimosse di sé.
Fred afferma: “Preferisco ricordare le cose a modo mio.” Questa frase sintetizza il tentativo di controllare una realtà frammentata attraverso una narrazione personale, spesso distorta, che protegga dal dolore e dalla confusione. Questo meccanismo difensivo è comune anche nella psiche umana, dove la rimozione e la distorsione dei ricordi servono a mantenere un equilibrio apparente. Ma cosa succede quando queste difese crollano?
L’inconscio e il conflitto psichico
Lynch attinge profondamente alla psicoanalisi freudiana, rappresentando visivamente il conflitto tra Io, Es e Super-Io. In Strade perdute, il protagonista affronta un mondo deformato, dove la logica lascia spazio al simbolismo onirico. Questo non è molto diverso dal lavoro psicoterapeutico, dove sogni, desideri e traumi rivelano la loro influenza nascosta sulla nostra vita quotidiana. Il concetto di “strade perdute” diventa quindi una potente metafora dell’inconscio: quei percorsi mentali dimenticati o negati che continuano a influenzare le nostre scelte, anche senza che ne siamo consapevoli. Fred si ritrova in un ciclo di eventi apparentemente senza via d’uscita, un’immagine che rappresenta la ripetizione dei conflitti irrisolti che molti pazienti portano in terapia.
La discesa nelle ombre: la psicoterapia come trasformazione
Proprio come Fred, che si addentra nelle sue “strade perdute”, il paziente in terapia intraprende un viaggio di scoperta che può essere doloroso ma anche profondamente trasformativo. L’obiettivo non è cancellare il passato, ma rileggerlo, comprenderlo e integrarlo in una nuova narrazione personale. Nel film, la destrutturazione dell’identità di Fred riflette il momento cruciale in cui il vecchio senso del sé viene messo in discussione. Questo passaggio è necessario per accedere a una consapevolezza più autentica. In psicoterapia, il terapeuta guida il paziente in questo percorso, aiutandolo a confrontarsi con i suoi traumi e le sue ombre interiori, per costruire una realtà più complessa ma anche più vera.
L’eredità di Lynch: un ponte tra arte e psicologia
David Lynch ha saputo rappresentare visivamente ciò che accade dentro di noi quando affrontiamo le contraddizioni e i conflitti che ci definiscono. La sua poetica ci ricorda che la mente umana non è un insieme rigido e razionale di pensieri, ma un tessuto fluido in cui sogni e realtà si intrecciano. Questo approccio risuona profondamente con la psicoterapia, che si basa proprio sull’esplorazione dell’inconscio e sul confronto con le parti rimosse del sé. Lynch ci insegna che la realtà non è mai oggettiva, ma è plasmata dai nostri desideri, paure e traumi. Il suo cinema è un invito a guardare oltre la superficie delle cose, a scendere nelle profondità della mente per scoprire chi siamo davvero.
Conclusioni: affrontare le proprie “Strade Perdute”
La morte di David Lynch ci priva di un artista straordinario, ma la sua opera resta una fonte inesauribile di riflessione. Strade perdute non è solo un film, ma una lezione sulla condizione umana: ci invita a esplorare quei luoghi della mente che spesso preferiamo evitare, ma che contengono le chiavi per la nostra crescita personale. In psicoterapia, proprio come nel viaggio di Lynch, non esistono risposte facili o lineari, ma è affrontando le nostre “strade perdute” che possiamo raggiungere una comprensione più profonda di noi stessi e del nostro rapporto con il mondo. Se senti il bisogno di intraprendere questo viaggio interiore, ricorda che non sei solo. Un percorso terapeutico può aiutarti a dare un senso alle tue esperienze e a scoprire nuove prospettive su chi sei e su chi vuoi diventare.
L’isolamento sociale è un fattore determinante per il consumo continuato di droghe
Le dipendenze sono l’unica scelta?
C’è sempre questa facilità di giudizio, leggevo di queste dichiarazioni, tra cui: “La droga è m**da e chi si droga è un cogl**ne”
C’è sempre questa facilità di giudizio sugli altri, senza neanche sapere da dove l’altro viene, che storia porta con sè e di sè, quando basterebbe provare a volte a mettere i piedi nelle scarpe dell’altro per capire dove e come noi saremmo potuti arrivare e con quali difficoltà o se non avremmo addirittura fatto di peggio.
C’è sempre questa facilità di giudizio, quando si parla di dipendenze e c’è chi è dipendente dal gioco d’azzardo, dal sesso, da una persona, dai social, dal cibo, dall’alcool, dallo shopping, non solo dalle droghe, e le dipendenze sono, semplificando, “l’unica scelta”, ma dobbiamo capirne di più, dobbiamo andare oltre, anche perchè quasi tutto quello che pensiamo di sapere sulla dipendenza potrebbe essere sbagliato.
L’esperimento del RAT-PARK
Negli anni 60, hanno fatto un esperimento: hanno preso un ratto, l’hanno messo in una gabbia singola e gli hanno dato due bottiglie di acqua, una contenente acqua fresca e l’altra acqua con la droga che da più dipendenza, l’eroina; il topo preferiva sempre l’acqua con la droga e consumava, in molti casi, tutta la quantità fino a procurarsi la morte.
Alla fine degli anni 70 il professore Bruce Alexander, docente di psicologia dell’università di Vancouver, ha osservato questo esperimento notando però che il ratto di turno era sempre messo in gabbia da solo, quindi decise di costruire una gabbia collettiva enorme, quasi 200 volte più grande: un RAT-PARK, ovvero un parco giochi per topi, abbellito con alberi ed elementi naturali dove vennero anche inseriti altri topi provenienti dal mondo esterno.
A questo punto, tutti i topi, sia quelli in gabbia che quelli nel parco, avevano sempre accesso alla possibilità di bere i due liquidi, ma mentre quelli in gabbia singola preferivano sempre l’acqua con l’eroina, i topi nel RAT-PARK preferivano maggiormente l’acqua fresca senza nessuna aggiunta di altre sostanze.
L’esperimento del RAT-PARK ha dimostrato che l’isolamento sociale è un fattore determinante per il consumo continuato di droghe.
La libertà e la compagnia dell’altro fanno calare drasticamente la dipendenza; l’opposto della dipendenza non è la sobrietà, ma la relazione.
Cosa s’intende per dipendenza?
Con il termine dipendenza si intende una condizione in cui l’organismo ha bisogno di una determinata sostanza per funzionare e sviluppa una dipendenza fisico-chimica da essa.
Non esiste una teoria unitaria a proposito dell’uso e della dipendenza da sostanze psicoattive o, più in generale, dell’addiction.
Spesso il termine addiction è usato come sinonimo di dipendenza, tuttavia il termine addiction, denota la dipendenza che spinge l’individuo alla ricerca dell’oggetto di dipendenza, senza il quale la sua esistenza diventa priva di significato: è dunque un coinvolgimento crescente e persistente della persona al punto che l’oggetto di dipendenza pervade i suoi pensieri ed il suo comportamento.
Lo psicologo Stanton Peel sostiene che la dipendenza non è una patologia cronica del cervello o un fenomeno biologico, ma un processo che può essere indagato solo soggettivamente in termini di valori, finalità, motivazione, esperienza, relazioni.
L’uso di sostanze da parte dell’essere umano è situato in un’ecologia, in cui i fattori biologici, psicologici e sociali si incontrano ed esercitano reciproca influenza sui risultati.
Tra alcune delle principali ipotesi e teorie di riferimento citiamo: L’approccio neurobiologico: sistema di reward, neurotrasmettitori e neuroadattamento, L’ipotesi di automedicazione, La teoria dell’attaccamento, Le teorie cognitivo-comportamentali e La teoria sociocognitiva di Bandura.
L’ipotesi di automedicazione di cosa parla?
La SMH, Self-Medication Hypothesis o ipotesi di automedicazione di E.J. Khantzian deriva dalla prospettiva psicodinamica ed è guidata da un approccio umanistico al paziente, è applicabile anche alle dipendenza senza uso di sostanze, ovvero alle new addictions.
Questa ipotesi, formulata negli anni Settanta dice che le droghe diventano additive perché hanno l’effetto potente di alleviare, rimuovere o cambiare il dolore e la sofferenza psicologica, sentita come insopportabile.
Le droghe riducono la rabbia, l’ansietà, la depressione e stati affettivi dolorosi e non è tanto il piacere che i dipendenti cercano, quanto piuttosto di regolare le loro emozioni e scappare da sentimenti costanti di deprivazione, vergogna e inadeguatezza; l’automedicazione, quindi è parte del sistema difensivo e di adattamento.
Edward Khantzian, dopo la casistica dei soggetti da lui trattati, dice che il tipo di droga era selezionato in modo tale che le proprietà farmacologiche della sostanza fossero idonee ad alleviare gli stati affettivi disturbanti del soggetto. Le droghe, quindi, vengono scelte attraverso successivi tentativi in cui i consumatori si imbattono in una droga che allevia specifici affetti.
Quale droga viene scelta e perchè?
La maggior parte preferisce una classe specifica di droghe che induce determinati effetti e viene incontro ai bisogni psicologici centrali della persona, nello specifico:
a) gli oppiacei vengono assunti per fronteggiare stati di disforia (disturbo dell’umore affine agli stati di depressione e di irritazione; opposto di euforia) associati ad aggressività e rabbia;
b) gli stimolanti e la cocaina vengono assunti per fuggire da uno stato depressivo e di vuoto, per alleviare sentimenti di noia, morte interna e mancanza di significato nella vita (vengono anche usati da persone con disturbi dell’attenzione per i loro paradossali effetti calmanti);
c) i sedativi e l’alcol vengono utilizzati per fare cadere le inibizioni e l’ipercontrollo e per ridurre la tensione e gli stati ansiosi;
d) la cannabis e gli allucinogeni vengono usati per combattere l’isolamento.
Esistono a supporto della teoria dell’automedicamento alcuni studi sperimentali, tra questi particolarmente interessante è quello condotto nel 1977 da Wusmer L. e Pecksnifr Mr.
Si tratta di una ricerca in cui un gruppo di eroinomani è stato trattato con doxepina (antidepressivo) e paragonato ad un gruppo di controllo trattato con placebo. L’antidepressivo ha provocato una significativa riduzione del craving ovvero del desiderio incontrollabile di assumere la sostanza, in questo caso l’eroina.
Gli autori, quindi, conclusero che gli eroinomani fossero affetti da sindrome ansioso-depressiva che andava in remissione per effetto del trattamento di un farmaco antidepressivo.
Per quel che riguarda le new addictions è stato ipotizzato che, anche per queste dipendenze, possa essere valida la teoria di Khantzian.
Quali dipendenze sono più complicate da superare?
In ordine di difficoltà, secondo Stanton Peel, le sette dipendenze più complicate da superare:
Dott. Alessio Novarelli – Studio di Psicologia, Psicoterapia – La Spezia
Guardare le stesse cose con occhi nuovi
La grande sfida è quella di trovare nuove regole, nuovi equilibri, pensieri nuovi, elaborare strategie, poter ricominciare a progettare con leggerezza, con tempi lenti; guardare le stesse cose con occhi nuovi e a trovare piccole soluzioni.
“La felicità non dipende da quello che ci manca ma dal buon uso di quello che abbiamo” Thomas Hardy
La grande sfida è quella di fare buon uso di quello che si ha, di quello che abbiamo, rimanendo nel presente, un invito a stare, nel presente, piuttosto che soffermarci a quello che ci manca, in ottica di passato o di futuro.
Ora più che mai, però, nel nostro presente, regna un senso di smarrimento, di sfiducia, di disorientamento, per cui appare ancora più vitale costruire legami per gestire l’imprevisto e l’incertezza.
“Bisogna apprendere a navigare in un oceano di incertezza attraverso arcipelaghi di certezza” Edgar Morin
La grande sfida è quella di avere e di poter sentire i nostri arcipelaghi di certezza, questo ci permetterà di poter utilizzare la nostra bussola che ci orienterà nell’incertezza.
I nostri arcipelaghi si formano attraverso le esperienze, le relazioni, l’ambiente e le emozioni.
“Il tempo per leggere come il tempo per amare dilata il tempo per vivere” Daniel Pennac
Non c’è nulla, al pari di un libro, in grado di fermare il tempo e dilatare la nostra vita; forse dice Pennac, solo l’amore, ha questo straordinario potere.
Apriamo i libri per vivere, ma aggiungo non solo quelli, possiamo utilizzare tutto quello che ci permette di viaggiare nel tempo, di sospenderlo o di dilatarlo, a seconda dei nostri interessi ma anche della nostra passione.
La grande sfida è quella di coltivare la nostra curiosità, che è un comportamento, un istinto, che nasce dal desiderio di sapere qualcosa e rappresenta inoltre una guida dalla quale deriva una parte della nostra motivazione.
La grande sfida è quella di continuare ad essere motivati nell’affrontare ciò che si presenterà a noi e nel trovare tutti i giorni piccole soluzioni.
Studio Clinico Il Baobab – campione di 583 persone della popolazione della Spezia – 03-18 maggio 2020
INDAGINE nella popolazione Spezzina sull’impatto che ha avuto l’attuale pandemia Covid-19 sulla percezione del nostro benessere fisico, psichico, sociale ed economico.
Lo studio è stato condotto tra il 3 e il 18 maggio scorsi diffondendo in città un questionario anonimo di autovalutazione della propria percezione in relazione al benessere verso il Covid-19 realizzato dagli psicoterapeuti dello Studio Clinico Il Baobab, studio di psicologia-psicoterapia sito in centro a La Spezia.
Il sondaggio prevedeva la compilazione di un questionario a scelta multipla di 31 items nel quale è stato chiesto di esprimere la propria opinione rispetto ai diversi aspetti dell’infezione.
La nostra indagine nella popolazione spezzina si è conclusa raccogliendo 583 questionari anonimi autosomministrati; ringraziamo nuovamente chi ha collaborato al nostro sondaggio compilando il questionario e la redazione di CdS – Città della Spezia che ci ha aiutato sostenendolo e promuovendolo.
L’impatto che ha avuto il Covid-19 sulla percezione del nostro benessere fisico, psichico, sociale ed economico ha evidenziato di aver avuto queste particolari problematiche:
Al primo posto stress/ansia per un49.7%interessando 290 persone, disturbi del sonno (41.5%)242 persone, paura del contagio (41.2%)240 persone, a seguire sbalzi di umore (37.7%), preoccupazioni economiche e lavorative (34.5%), umore depresso (27.5%), conflitti (7.4%), problemi con i figli (6.3%), problemi alimentari (5.8%).
Studio Clinico Il Baobab – campione di 583 persone della popolazione della Spezia – 03-18 maggio 2020
Gli aspetti che hanno maggiormente influenzato la salute psichica della nostra popolazione sono:
Al primo posto il cambio di abitudini per un 41.2% interessando 240 persone, il distanziamento sociale (38.1%) 222 persone, l’isolamento (24.5%) 143 persone, a seguire troviamo la gestione della quotidianità (25.4%), la chiusura o limitazioni dei servizi (24%), problemi di lavoro (12.7%), difficoltà economiche (12%), difficoltà familiari (8.2%) e problemi di salute (4.3%).
Studio Clinico Il Baobab – campione di 583 persone della popolazione della Spezia – 03-18 maggio 2020
Come percepisce la popolazione della Spezia la prospettiva di una futura ripresa psicofisica ed economica?
Il 70.7% percepisce la ripresa psicofisica come positiva , un 22.1% invariata e un 7.2% negativa, per quanto riguarda la ripresa economica il nostro campione la percepisce la prospettiva come invariata al 40%, positiva al 35.8% ed infine negativa ad un 24.2%.
Studio Clinico Il Baobab – campione di 583 persone della popolazione della Spezia – 03-18 maggio 2020Studio Clinico Il Baobab – campione di 583 persone della popolazione della Spezia – 03-18 maggio 2020
Il nostro campione ha dichiarato di vivere l’ingresso nella fase 2 con preoccupazione con un 57.5%, con fiducia con un 31.4%, con indifferenza con un 5.8% e con spavento con un 5.3%.
Nonostante le difficoltà espresse emerge un campione della nostra città che si sente abile e competente nel poter migliorare il proprio benessere sia psicologico che psicofisico; il nostro invito come studio clinico di psicologia e psicoterapia, di professionisti della salute mentale, è quello di restare in ascolto di quelli che sono i propri stati emotivi, i propri pensieri e le proprie azioni/comportamenti con la finalità di comprendere ed osservare l’eventuale comparsa o peggioramento di sintomi che potrebbero con il tempo, se non trattati, cronicizzarsi.
INDAGINE nella popolazione Spezzina sull’impatto che ha avuto l’attuale pandemia Covid-19 sulla percezione del nostro benessere fisico, psichico, sociale ed economico.
La compilazione, che richiede circa 5 minuti di tempo è in forma anonima, non necessita di nessuna registrazione e non vi è nessuna obbligatorietà di nessun genere. Non vi è nessun possibile rischio a parteciparvi, in quanto si tratta di una rilevazione delle opinioni e percezioni delle persone in merito all’attuale pandemia.
Lo Studio Clinico Il Baobab continuerà a raccogliere i Vostri questionari, che fino ad oggi sono giunti numerosi; prossimamente Vi renderemo partecipi dei risultati complessivi del nostro territorio Spezzino.
Vi ringraziamo per la Vostra disponibilità e collaborazione e per la Vostra numerosa partecipazione.
INDAGINE nella popolazione Spezzina sull’impatto che ha avuto l’attuale pandemia Covid-19 sulla percezione del nostro benessere fisico, psichico, sociale ed economico.
Quali sono i possibili benefici derivanti dall’indagine?
La raccolta della percezione delle persone che stanno vivendo l’attuale pandemia da Covid-19 riteniamo sia interessante per strutturare possibili ipotesi di futuri interventi nel nostro territorio della Spezia sia in ottica preventiva, per contenere una cronicizzazione dei possibili sintomi che terapeutica.
Lo Studio Clinico il Baobab della Spezia, Vi invita a prendere parte ad un sondaggio per valutare la Vostra percezione relativa all’impatto fisico, psicologico, sociale ed economico che l’infezione Covid-19 ha avuto nella Vostra quotidianità, mettendo in luce, nel caso, le ripercussioni sul Vostro livello di benessere più generale.
Per questo motivo Vi chiediamo la disponibilità a partecipare alla rilevazione.
Se Vi fa piacere, potreste aiutarci nel dare un Vostro contributo al sondaggio.
La compilazione richiede circa 5 minuti attraverso il seguente link: https://lnkd.in/gxgwXgK
L’ emergenza Covid-19 purtroppo sta isolando tutti noi in casa, ma soprattutto per molti bambini , questo si traduce in mancanza di socialità e tantissimo tempo libero a disposizione, soprattutto per i nostri piccoli che non hanno delle video-lezioni in programma.
Senz’altro non è possibile dedicare sempre loro la nostra attenzione, ma ritengo utile suggerire alcuni consigli da seguire per far si, che inizino a gestire il gioco in modo indipendente. Infatti mentre per le generazioni passate, non era nuova consuetudine giocare da soli, per i bambini di oggi il tempo del gioco è sempre limitato in quanto le loro giornate sono scandite da numerose attività che li impegnano in toto. L’organizzazione Mondiale della Sanità suggerisce giustamente che per i piccoli da 2 ai 5 anni di età, non si dovrebbe superare 1 h al giorno di intrattenimento tra televisione, videogiochi, smartphone, per cui occorre trovare nuove strategie per intrattenerli e insegnare loro a giocare in maniera indipendente.
Ecco di seguito alcuni consigli
Osservarli durante il gioco
Una strategia che dovrebbe permettere al bambino di giocare in modo indipendente è questa: stabilite un determinato tempo, (15-20 minuti) con il vostro bambino, durante il quale, spento ogni telefono, starete ad osservarlo, comunicandogli che quel tempo sarà solo dedicato a lui e che il vostro apporto sarà esclusivamente di aiuto e non di proposta ludica. Allo scadere del tempo, sarà per il bambino una grande gratificazione sentirsi dire che è stato bello osservarlo e giocare con lui. Importante: per un bambino che non ha mai giocato da solo, è troppo pretendere che il gioco si prolunghi molto, ad esempio 1 h, quindi si potrebbe iniziare con 5 o 10 min di gioco autonomo rinforzando positivamente ogni frame di tempo che il bambino raggiunge. (anche qualora questo fosse inferiore a quello che il genitore aveva supposto).
Setting stimolante
Pensate a come organizzare l’ambiente di casa, in modo stimolante, così che il bambino possa trovare la voglia e la curiosità di giocare da solo. Lasciate in giro alcuni oggetti o giochi in luoghi inattesi, così da suscitare in lui la curiosità e l’interesse. Scatole aperte di lego e macchinine e/o bambole disposte in fila o in cerchio potrebbero suscitare in lui la voglia di giocarci.
Spazio al disordine
La scelta di un’area della casa in cui i bambini possano giocare liberamente e dare sfogo alla loro fantasia, permetterà loro di rilassarsi, tenendoli impegnati a lungo,senza farsi male. I bambini infatti se non hanno esaurito tutte le loro energie, saranno piuttosto capricciosi.
Per i bambini più fortunati, il giardino costituisce una valida risorsa, perchè possono disporre di spazio in cui giocare, muoversi, fare semplice attività motoria, sperimentare attività di giardinaggio o simili. Per i meno fortunati occorre invece scegliere una zona della casa, in cui possono liberamente giocare e sporcarsi con materiali quali farina, colori, acqua e ideare percorsi con i birilli. Per renderli più sicuri si potrebbe attrezzare la zona in cui giocano con cuscini, tappetini o morbide coperte.
Lasciatevi coinvolgere
Se il vostro bambino sarà consapevole che successivamente anche voi sarete coinvolti nel gioco, troverà maggiore soddisfazione e interesse nel proseguire poi il gioco autonomamente. Le attività in cui un genitore potrebbe inserirsi possono essere per esempio una sfida a nascondere e a trovare un oggetto, o percorsi semplici in sicurezza.
Abbiate pazienza
Non potete pretendere che i vostri piccoli imparino a giocare da soli in breve tempo, perchè tutti i cambiamenti necessitano di tempi lunghi. Se impareranno a giocare in modo indipendente, acquisteranno anche la capacità di elaborare emotivamente quello che sta accadendo intorno a loro, perchè nel loro gioco simbolico insceneranno situazioni che li stanno turbando: il gioco diventa quindi una terapia.
Favorire le routines
L’importante comunque è continuare in questo periodo #iorestoacasa a mantenere costante la ritualità delle abitudini quotidiane proprio per generare in lui un maggior senso di prevedibilità e sicurezza. Risulta utile continuare noi genitori a parlare con loro degli amici e delle maestre del nido ricordando particolari momenti vissuti insieme, proprio al fine di attenuare il distacco dalla loro precedente esperienza pre-scolastica, così come sarà importante prepararli al momento del rientro.
Ancora si potrebbero realizzare disegni e vari elaborati grafico-pittorici da appendere nelle pareti delle loro camerette o in altri luoghi adibiti al gioco, per favorire sempre il loro orientamento temporale e spaziale.
…e la gestione delle emozioni?
I nostri piccoli in questa fascia di età (2-6 anni) non hanno adeguati strumenti cognitivi tali da comprendere le informazioni che giungono loro dai mass-media, anzi sarebbe opportuno limitare al massimo l’esposizione a tali fonti, per cui dovrebbero essere gli adulti a filtrare queste notizie, spiegando loro per esempio che le loro vacanze così prolungate e forzate dipendono da un’influenza che sta circolando intorno a noi ma di cui i dottori si stanno occupando. D’altronde noi adulti costituiamo per loro un importante punto di riferimento su cui il bambino deve contare per controllare le sue paure e se noi ci mostriamo impauriti o agitati anche il nostro piccolo si sentirà in preda ad una realtà minacciosa.
Mi piace concludere con questi pensieri di Antonella Lattanzi:
In questi giorni di chiusura manca a noi tutti l’aria contro la pelle ma presto ci sarà “un’aria tutta diversa che soffia energia vitale dentro di noi, …un’aria piena di coraggio che soffia implacabile per le nostre strade …l’aria di cui è fatta l’immaginazione, un tornado di immaginazione che inventa il futuro che inizia il futuro adesso”.
Dalla traduzione dello schema in spagnolo di Celina Canales e da Casa per la Pace di Milano che ringrazio, questo è il mio personale schema riadattato.
“E la gente rimase a casa” è una poesia ispirata alla pandemia di coronavirus, scritta da Kitty O’ Meara, un’insegnante in pensione, della città di Madison, nel Wisconsin.
E la gente rimase a casa e lesse libri e ascoltò e si riposò e fece esercizi e fece arte e giocò e imparò nuovi modi di essere e si fermò e ascoltò più in profondità qualcuno meditava qualcuno pregava qualcuno ballava qualcuno incontrò la propria ombra e la gente cominciò a pensare in modo differente e la gente guarì. E nell’assenza di gente che viveva in modi ignoranti pericolosi senza senso e senza cuore, anche la terra cominciò a guarire e quando il pericolo finì e la gente si ritrovò si addolorarono per i morti e fecero nuove scelte e sognarono nuove visioni e crearono nuovi modi di vivere e guarirono completamente la terra così come erano guariti loro.